Perché ho smesso di usare la parola "periferia" (e forse dovresti farlo anche tu)
#COMUNICAZIONE Quali parole usi per descrivere i luoghi della tua città?
Ho una confessione da fare: provo una profonda repulsione verso la parola "periferia".
È come un fastidio sottile, quasi impercettibile, ogni volta che sento qualcuno usare quel termine per descrivere parti della mia o di altre città mi domando quale sia la posizione nascosta che intende inconsciamente mantenere.
È un termine che, con il tempo, ho capito che nasconde un'implicita gerarchia di valore, una divisione che va ben oltre la semplice geografia urbana.
La "periferia" non è mai solo un concetto fisico. È un costrutto sociale carico di giudizi, che porta con sé una narrazione predefinita di marginalità, di mancanza, di distanza non solo fisica ma anche culturale e valoriale rispetto a un presunto "centro" di maggior rilevanza.
Il potere nascosto delle parole
Nel mio percorso di approfondimento del placemaking, ho imparato che i luoghi sono anche storie. Narrazioni collettive che definiscono come vediamo certi spazi, come li viviamo, come investiamo in essi e persino come costruiamo politiche pubbliche per trasformarli.
Le parole che usiamo per descrivere i luoghi sono frutto di una scelta personale e per questo non sono mai neutre. Quando definiamo un quartiere come "degradato", "a rischio", o "dormitorio", stiamo costruendo una narrazione che influenza percezioni, decisioni politiche e il senso stesso di appartenenza di chi in quei luoghi vive ogni giorno.
Come scriveva Henri Lefebvre, teorico della “giustizia nello spazio”: "Lo spazio urbano non è un contenitore neutro, ma un prodotto sociale che riflette relazioni di potere."
E il linguaggio è uno degli strumenti più potenti attraverso cui queste relazioni di potere si manifestano e si perpetuano.
Etichettare un quartiere come "periferia" è simile a quando un bullo affibbia un soprannome sprezzante a un compagno. Il soprannome non descrive realmente la persona, ma crea una narrativa che indebolisce l’altro e che gli altri accettano senza metterla in discussione. Col tempo, questa etichetta influisce su come gli altri vedono quella persona e su come essa inizia a vedersi. Allo stesso modo, definire un quartiere con delle etichette negative costruisce una narrativa che influisce sia sulla percezione esterna che sull’identità di chi ci vive.
Particolarmente problematico è l'uso che alcune testate giornalistiche fanno della parola 'periferia', soprattutto quelle focalizzate sulla cronaca nera. Questi media tendono ad abusare del termine per generalizzare e tratteggiare rapidamente situazioni problematiche, ma innescano un meccanismo inconscio di apprensione nel lettore o, al contrario, un senso di privilegio derivante dal fatto di sentirsi distanti da tali realtà.
Sebbene sia difficile quantificare con precisione l’entità del fenomeno, i report dell’Osservatorio di Pavia, le iniziative della Fondazione Bracco – come la conferenza Dieci, Cento, Mille Centri – e gli studi di Save the Children confermano l’esistenza di una problematica strutturale: la narrazione mediatica e sociale delle periferie si concentra spesso su privazione, degrado e marginalità, con l’esito di oscurare opportunità, risorse e potenzialità di sviluppo presenti in questi territori.
Come sottolinea Save the Children nell’Atlante dell’infanzia a rischio:
Uno dei problemi dei bambini e dei ragazzi delle periferie italiane è rappresentato dalla pigrizia mentale con cui da decenni continuiamo a rappresentare i contesti in cui sono nati e cresciuti. Titolo dopo titolo, immagine dopo immagine, a lungo andare abbiamo contribuito a creare delle etichette indelebili che gli si appiccicano addosso alimentando rabbia e frustrazione. Se la nomea di alcuni quartieri rischia di marchiare a fuoco le aspirazioni e i sogni di tanti giovani, il termine periferia ricorre in maniera così ossessiva da aver perso quasi ogni significato.
Questa rappresentazione selettiva crea quello che il sociologo urbano Loïc Wacquant definisce "stigma territoriale", un processo per cui l'immagine pubblica negativa di questi quartieri si imprime sia sulla coscienza pubblica che sulle politiche statali, alimentando pregiudizi e paure e attivando un circolo vizioso in cui lo stigma mediatico rafforza l'isolamento sociale e il disinvestimento economico.


La voce di chi abita
Un aspetto fondamentale, spesso trascurato di questa dinamica, è l'impatto che queste narrazioni hanno su chi vive quotidianamente nei territori etichettati come "periferie". Quando ascoltiamo le voci degli abitanti di questi quartieri, emerge un rapporto complesso e ambivalente con le narrazioni esterne. Da un lato, troviamo una forte identificazione con il territorio e un senso di comunità spesso più intenso che altrove e talvolta accompagnato dall'interiorizzazione dello stigma; dall'altro, la consapevolezza di questa condizione può anche generare proattività, azioni positive e la forza per agire in modo aderente alla realtà e allo scopo di affermare la libertà di autodeterminazione.
Questo rappresenta un problema particolarmente significativo per gli adolescenti, che devono ancora definire la propria identità e potrebbero finire con l'auto-limitarsi. Chi vive in constesti che subiscono dei pregiudizi e delle stigmatizzazioni può arrivare a interiorizzare l'idea di abitare in un luogo di minore valore o con minori opportunità, fino a rinunciare alla ricerca di possibilità future.
Ciò che ritengo importante da professionista che opera sui territori, è che la narrazione unidimensionale non costituisce un supporto alle persone e non apre margini di miglioramento.
Un nuovo lessico per i territori
Da questa consapevolezza è nato il mio #1Post.t"Parole che mappano i luoghi": una guida al linguaggio per descrivere i quartieri superando stereotipi e pregiudizi e guardare ai territori con occhi nuovi.
Questo playbook offre chiavi di lettura e strumenti concreti per vedere e raccontare la complessità urbana contemporanea nella sua interezza, andando oltre le semplificazioni che spesso caratterizzano il dibattito pubblico.
Prendiamo ad esempio l'espressione "quartiere dormitorio". Questo termine riduce un intero territorio alla sua sola funzione residenziale, come fosse radicalmente vero che le persone vi tornano solo per dormire, vivendo altrove la loro vera quotidianità.
Una narrazione più equilibrata dovrebbe invece riconoscere le relazioni sociali, le piccole attività commerciali e tutti gli elementi che compongono la vita quotidiana di un quartiere. Termini come rete di vicinato evidenziano il legame tra gli abitanti, mentre ecosistema di quartiere mette in luce la complessità delle dinamiche sociali ed economiche. Anche definizioni come contesto abitativo, struttura urbana o tessuto urbano offrono una visione più completa, evitando di ridurre il valore del luogo. Oppure, si può semplicemente parlare di quartiere, lasciando che siano gli eventi e le storie di chi lo vive a definirne l’identità.
Sviluppare un vocabolario più preciso significa quindi interrogarsi criticamente sulle categorie attraverso cui interpretiamo i territori, riconoscendone la complessità intrinseca e le molteplici identità che li caratterizzano, al di là di schematismi riduttivi.
È fondamentale chiarire e riconoscere i limiti del linguaggio, perchè consente di superare l'esistenza di situazioni reali di fragilità. Infatti, quando un territorio vive effettivamente condizioni di vulnerabilità sociale o fenomeni di violenza, il primo passo per un cambiamento autentico è proprio restituire dignità al luogo attraverso un linguaggio rispettoso.
Un problema ben identificato è un problema mezzo risolto.
Charles Kettering
Un approccio realmente trasformativo parte da un cambio di prospettiva: dobbiamo vedere questi luoghi come territori con identità proprie, per definire chiaramente il problema, capirne a fondo le risorse e le potenzialità specifiche e per affrontare efficacemente qualsiasi sfida.
Il nostro vocabolario per descrivere il territorio è, in ultima analisi, una questione di giustizia territoriale. Abbandonare la logica binaria centro/periferia significa abbracciare una visione policentrica delle nostre città, dove ogni quartiere viene valorizzato per la sua unicità e non misurato sulla distanza da un presunto centro.
Scarica il playbook "Parole che mappano i luoghi" per iniziare un percorso di consapevolezza sul linguaggio territoriale. Che tu sia un comunicatore, un amministratore pubblico, un professionista o semplicemente una persona interessata a guardare la città con occhi nuovi, questa guida offre strumenti concreti per una comunicazione più rispettosa della complessità dei territori.
Tu, quali parole usi per descrivere i luoghi della tua città?
Condividi nei commenti la tua esperienza e le tue riflessioni sul potere del linguaggio nella costruzione dei luoghi.
Grazie Valeria, io spesso, abitando quasi al limite di Milano, mi trovo a cambiare il modo in cui comunico dove abito a seconda dell'interlocutore che ho davanti, per modulare o controllare parzialmente lo stereotipo/bias che scatterà nella sua testa.